Contesto familiare e programmi di vita. Il contributo di un nonno che la sa lunga…

Pubblichiamo le riflessioni teorico-pratiche di un padre/nonno, con tanti anni di lavoro come formatore e consulente alle spalle, risalenti al 2014 ma ancora attualissime. Ci offrono una chiave di lettura e ci provocano con alcune domande…Grazie Pippo Florio!

Maggio 2020

Riassumo i concetti essenziali di una teoria psicanalitica che è molto semplice da capire ed aiuta a comprendere sé stessi e a rendere buoni i rapporti con gli altri. Può essere utile a fare luce su aspetti particolarmente cruciali nei primi anni di vita familiare. Me lo ha chiesto mio figlio Stefano che da anni si occupa di paternità.

L’autore di questa teoria è Eric Berne (*) che l’ha chiamata “Analisi Transizionale” (AT):

1.E’ un modello teorico che studia l’individuo all’interno del suo ambiente, cioè dell’ambiente in cui vive, attraverso i comportamenti auto-osservabili che manifesta.

2.AT non è fatta di concetti ma di strumenti per comprendere le interazioni umane e per attuare il cambiamento di sé che si ritiene più opportuno.

La struttura della Persona ha queste caratteristiche sugli Stati dell’IO:

  1. Il genitore (G) rappresenta il mondo dell’appreso, regole, norme;
  2. L’adulto (A) rappresenta la parte del pensato, razionale e decisionale;
  3. Il bambino (B) rappresenta la componente del sentito e dell’emozione.
  4. Ognuno di noi possiede gli stati dell’IO
  5. Ogni stato si accompagna a manifestazioni
  6. Si passa velocemente da uno stato all’altro

Questi stati sono chiamati in causa tutte le volte che comunichiamo e creiamo una Transazione con l’Altro; lo studio di questi stati e delle interazioni con gli altri è, per l’appunto, l’Analisi Transazionale. E l’AT ci introduce anche al concetto del nostro “Copione di Vita”.

Le prime decisioni della nostra vita, ci hanno fornito un programma da seguire cioè un Copione di Vita nostro, adattato a quelle che riteniamo siano le richieste dell’ambiente.

La registrazione dei primi messaggi che ci arrivano dai nostri genitori ha provocato delle decisioni che condizionano nel corso della vita il nostro Copione.

Noi agiamo inconsapevolmente secondo il nostro Copione. Conoscere cosa ha determinato la stesura del nostro Copione aiuta a procedere secondo un nuovo modo e, cioè, a gestire in noi un cambiamento consapevole.

Il Copione di Vita si forma generalmente nei primi tre anni di vita influenzato dalle due figure genitoriali: il genitore dello stesso sesso influisce prevalentemente sullo stato A dell’IO, mentre l’altro influisce prevalentemente su G e B.

Ognuno di noi ha scritto la storia della propria vita.

Cominciamo a scriverla alla nascita. Quando abbiamo quattro anni, abbiamo deciso le parti essenziali della trama. A sette anni abbiamo completato la storia in tutti i dettagli principali. Da allora sino all’età di circa dodici anni le abbiamo dato dei ritocchi e aggiunto qua e là qualche dettaglio. Nell’adolescenza poi abbiamo riveduto il copione, aggiornandolo con personaggi più aderenti alla vita reale. Come tutte le storie, la storia della nostra vita ha un inizio, un punto di mezzo e una fine. Ha i suoi eroi, le sue eroine, i suoi cattivi, i suoi protagonisti e le sue comparse. Ha il suo tema principale e i suoi intrecci secondari. Può essere comica o tragica, mozzafiato o noiosa, fonte d’ispirazione o banale. Ora che siamo adulti gli inizi della nostra storia sono al di fuori della portata della nostra memoria cosciente. Può darsi che a tutt’oggi non siamo consapevoli di averla scritta e tuttavia, in assenza di questa consapevolezza, è probabile che vivremo questa storia quale la componemmo tanti anni fa. Questa storia è il nostro copione.

Varie sono le domande da porsi al termine di questa breve riflessione. Cerco di elencarle senza entrare nelle questioni sociali ma solo tecniche:

  1. Quanto è essenziale che i genitori siano persone di sesso differente?
  2. Quando nella vita di oggi i genitori lavorano, i “sostituti” (es. tate, baby sitter) sono la stessa cosa?
  3. Che importanza ha la qualità del tempo trascorso con il figlio rispetto alla quantità?
  4. I nonni spesso sono presenti; per questo sostituiscono le figure genitoriali?
  5. La figura di fratelli/sorelle maggiori che ruolo ha?

Sono solo alcune domande a voi le risposte. Aggiungo che in molti paesi si concede alla mamma la possibilità di stare a casa per i primi tre anni con salario ridotto. C’è un motivo?

Scrivete osservazioni o domande alla posta di nonno Pippo: gateitalia@libero.it

(*) Per approfondire: Berne, E. (2000) “Ciao E poi?”, Milano, Tascabili Bompiani; Berne, E. (2000) A che gioco giochiamo? Milano, Tascabili Bompiani

Pensieri di Alberto, alias Mago Berto

Milano, 16 maggio 2020

Mago Berto in azione durante uno spettacolo fatto per i papà e i bambini di Papà Al Centro

Ciao a tutti, sono Alberto Magnani uno dei storici papà che hanno contribuito alla creazione del gruppo dei papà al centro. Vorrei descrivere la mia esperienza in merito al gruppo. Dunque comincio col dire che per un genitore padre di due bambini è stato molto importante avere avuto come riferimento altri genitori, che come me non avevano molti strumenti a disposizione, se non il quotidiano da sperimentare. Il fatto di aver cresciuto i miei figli nei primi 5/6 anno di vita con papà al centro, è stato molto stimolante e rassicurante. Insieme a Massimo, Stefano, Emanuele, Domenico Dondi e altri padri. Io e i miei bambini abbiamo trovato e costruito una specie di seconda famiglia. Insieme infatti abbiamo condiviso le nostre incertezze, debolezze e riscoperto risorse e nuovi sguardi con i quali guardare strumenti adeguati per far fronte alla società che velocemente sta cambiando. Ricordo molto bene lo spazio che ci ritagliavamo ogni sabato mattina. Questo era un appuntamento che si anelava con Vera attesa. Il fatto che tra noi padri era nata una grande amicizia e stima, ci dava la possibilità di essere trasparenti e veri l’un con l’altro. Insieme abbiamo condiviso le ansie, i pianti e le preoccupazioni del passato del presente e de futuro. Del passato In quanto ognuno di noi ha ricevuto un educazione ed un modello basato sugli schemi mentali di nostro padre, sul suo modo di concepire l’educazione dei figli e sul proprio modello del contesto storico nel quale è stato a sua volta educato e cresciuto. Ebbene insieme ci siamo confrontati e presi coscienza del fatto che non siamo migliori di coloro che ci hanno educati, ma che col senno di poi il nostro sguardo si volta verso il passato con un senso di gratitudine per ciò che abbiamo appreso. Anche nel presente si ripresentano eventi dove ognuno di noi ripete inconsapevolmente la stessa educazione che abbiamo ricevuta, e la rimandiamo ai nostri figli. Con ciò non c’è nulla di male, ma l’averlo espresso tra noi con emozioni verbali e gesti concreti, ci ha resi padri migliori e consapevoli.
Il futuro, ci siamo detti anche la paura di non essere padri da esempio per i nostri figli, abbiamo detto verbalmente ciò che ci angoscia, i nostri timori, il lavoro, l’economia, l’avanguardia della tecnologia e la società nuova in costante evoluzione. Tra queste persone, ho trovato amici, in parte anche fratelli. Alle volte bastava uno sguardo per capire la necessità dell’altro amico che ci stava accanto. Siamo stati un gruppo, siamo stati amici, siamo stati l’uno vicino all’altro in momenti che nemmeno pensavamo di trovare qualcuno che ci capisse veramente. Assieme siamo cresciuti, abbiamo dato un volto al nostro sentire e abbiamo dato voce alle nostre emozioni. Abbiamo imparato a dare un nuovo colore ed un nuovo suono ai giochi con i nostri bambini. Il gruppo di papà al centro, è ancora oggi un segno che rimarrà indelebile nelle nostre memorie ed esperienze. È con gratitudine che dico a questi miei amici grazie, grazie per ciò che abbiamo condiviso, grazie per avermi insegnato a giocare con i miei bambini, e grazie per la grande trasparenza e amicizia che ancora oggi ci lega.
La società ha bisogno di persone come queste che ricercano di essere nel quotidiano uomini, padri e mariti migliori.

Alberto Magnani.

Pensieri e riflessioni ai tempi del Covid…e se fosse (anche se in piccola parte) un’opportunità?

15 Maggio 2020

A due mesi dall’inizio di questo assurdo e sconvolgente periodo di lockdown (iniziato per me, come per molti altri, dalla mattina del 10 marzo scorso) ho sentito il desiderio ora “di fermare su carta”, come si diceva una volta, quanto questo tempo forzatamente sospeso abbia fatto emergere nella mia vita in termini di pensieri, vissuti, riflessioni.

La pandemia ha tolto tanto a molti (chi ha perso amici e parenti sconfitti dal virus, chi ha lottato duramente ma alla fine ha vinto e chi sta combattendo ancora, la libertà di muoversi nelle città e fra i territori, di vedere i propri cari, la sicurezza del proprio lavoro ecc.) e ancora chissà per quanto tempo influenzerà le nostre vite (anche apportando forse salutari miglioramenti a stili, pratiche, comportamenti); vite che certamente saranno diverse da prima che il Covid cambiasse il corso degli eventi e in fondo la storia dell’umanità.

Nel mio e nostro piccolo ovviamente la pandemia e le conseguenti decisioni che sono state assunte hanno profondamente mutato appunto da oltre due mesi le mie e nostre giornate; ci siamo ritrovati a vivere come tanti molte novità, sopportare dei sacrifici, rinunciare a qualcosa, cambiare abitudini e comportamenti. Siamo stati costretti a fermarci un momento guardando fuori dalla finestra l’evoluzione della pandemia pensando anche i tanti che, a differenza nostra, hanno continuato a lavorare nonostante tutto e a beneficio di tutti, anche di coloro che come noi hanno potuto godere della protezione delle proprie pareti domestiche (contemporaneamente sia prigione da cui vorresti evadere che fortezza che ti protegge dalle minacce esterne).

Mi sono ritrovato come molti a vivere diversamente le mie giornate come uomo, come lavoratore, come marito, come figlio e anche come padre e quindi genitore e di questo che in queste righe vorrei qui fermarmi a riflettere a voce alta. Perché convinto che, al netto del fatto che nessuno avrebbe voluto vivere quanto stiamo vivendo e consapevole di quanto dolore il virus abbia portato come detto nelle vite di moltissimi in tutto il mondo, la pandemia ha offerto (naturalmente in piccola parte, non vorrei essere frainteso su questo) anche delle opportunità che mi piace evidenziare.

Certamente non un tempo di grazia quello vissuto e che vivremo ma sicuramente un tempo di riflessione e di sperimentazioni. Un tempo concessoci per poter anche lavorare sul sapere, sul saper fare e sul sapere essere di ognuno di noi.

Nella vita ho imparato che nulla accade per caso e qualcosa di ciò che accade rimane poi per sempre dentro ad ognuno di noi, nel peggiore dei casi solo a livello di ricordi; e sono certo sarà così anche ora.

Pur fra rinunce, sacrifici, difficoltà per nuovi equilibri da raggiungere e talvolta momenti di angoscia pensando ad un futuro diverso e probabilmente difficile per molti e per tante ragioni, l’aver trascorso come mai prima finora un così lungo periodo di tempo a casa con “solo” mia moglie e mio figlio (e anche il gatto a dire il vero ma purtroppo senza la compagnia della piccola Sofia, il cui progetto di affido con noi è stato messo anch’esso in stand by gioco forza) mi ha reso un genitore potenzialmente diverso ed auspicabilmente migliore (lo vedremo nel tempo). Lo dichiaro subito: non mi è pesato stare a casa insieme a Edoardo, a mia moglie Patrizia e al nostro gatto Bobo.

L’aspetto che forse più è cambiato in questo periodo è la nozione e soprattutto la percezione del tempo e del suo trascorrere. Da merce rara (quante volte si era portati a pensare e a dire “non ho tempo”) a bene improvvisamente a propria disposizione in quantità maggiore – anche perché “liberato” da quello spesso utilizzato in maniera non ottimale e/o comunque perfettibile (es. le ore per andare e tornare dal lavoro; ridicolo che dell’utilità dello smart working ci si sia dovuti accorgere solo per colpa del Covid……). Ho sempre cercato di dedicare del tempo a Edoardo fin dal suo arrivo ma questo periodo mi ha concesso la possibilità di vivere molti e nuovi momenti con lui e per lui, alcuni irrepetibili ed altri semplicemente appunto nuovi e/o diversi.

Sbirciare con la coda dell’occhio le sue video lezioni di classe ed ascoltare – anche furtivamente lo ammetto – quanto avveniva ed avviene durante le sue ore di scuola (perché sono state e sono ore di scuola a tutti gli effetti, per lui per gli insegnanti e anche per noi genitori, ore a cui non abbiamo mai solitamente accesso), almeno io l’ho trovato bello ed arricchente. Così come rimarranno per sempre nei miei ricordi le nostre sfide a ping pong (appuntamenti quasi giornalieri in orario tardo pomeridiano sfruttando un kit comprato anni fa, immancabili quasi come quelle del film “Questione di tempo” dove padre e figlio si dilettano a sfidarsi appunto a ping pong), la visione di un film scelto tutti insieme il sabato sera, il vederlo allenarsi con la zia al mattino attraverso una video chiamata con Skype, i pranzi sul tavolino del nostro balcone, le ore trascorse a ripetere con lui gli argomenti delle sue lezioni così come con Sofia (in questo caso però attraverso lunghe video chiamate con WhatsApp), il progettare insieme pranzi e cene ecc. ecc.

Non solo più tempo a disposizione ma soprattutto la voglia di vivere insieme un tempo più ricco di affetti, valori, sentimenti. E questo rinnovato e più ricco valore del tempo è un primo “plus” di questo periodo che vorrei riuscire a preservare anche ad emergenza finita.

A colpirmi poi una seconda condizione venutasi a creare e che anche questa vorrei portarmi a casa nel mio bagaglio personale (insieme ai tanti corsi on line frequentati sugli argomenti più svariati – anche quelli per cercare di mantenersi in forma… -, all’aver creato da solo il nuovo sito di Papà Al Centro, alla sistemazione e al riassetto di pacchi di documenti stipati da anni alla rinfusa negli armadi di casa e che hanno segnato il corso della mia vita ecc. ecc.). Ho visto una notevolissima propensione all’ascolto delle esigenze altrui ed una grande disponibilità a venirsi incontro, forse proprio perché consapevoli che qualche sacrificio è stato compensato dal poter passare insieme molto tempo, certamente più di quello che solitamente si vive assieme.

Non voglio dire che sia stato un periodo solo di rose e fiori, anzi di scazzi in casa ce ne sono stati, ce ne sono e saranno ancora parecchi, ma è stato bello vedere come quasi involontariamente ognuno di noi abbia dato una mano nel disbrigo delle faccende domestiche (tranquilli…comunque per mia moglie faccio sempre poco e tendenzialmente non bene come dovrei….), dividersi gli spazi e i supporti informatici/device così utili in queste settimane, cercare di aiutarsi reciprocamente contaminandosi (anche quando magari si era concentrati ad es. sul cercare di fare al meglio il proprio lavoro), ecc. ecc.

Propensione all’ascolto – quindi una maggiore empatia – ed una disponibilità al servizio come condizioni ricercate in questa fase, anche perché forse “liberanti” rispetto ad una situazione di rinunce e sacrifici essendo costretti forzatamente dentro le proprie mure domestiche; e quindi anche,da un lato, abilitanti di nuove competenze e capacità utili speriamo per il futuro e, dall’altro, precondizioni per assumere un più equilibrato sguardo e una migliore prospettiva sia verso gli altri, partendo dai propri cari, e sia verso le vicende della vita.

Al distanziamento sociale imposto a tutti fuori di casa, ha fatto da contraltare quindi un aumento del livello di risonanza (nell’accezione che del termine dà il filosofo tedesco Hartmut Rosa) fra noi dentro casa e verso gli altri, nella speranza che presto si possa tornare a riabbracciarsi, anche fisicamente. E forse chissà anche come naturale reazione alla paura di perdere ciò che si ha e, mai come ora, percepito come importante e prezioso. Ad es. mi ha colpito molto la propensione che ho visto in tanti di sostenere i piccoli esercenti di zona oppure i fornitori di prodotti locali rivolgendosi a loro anzichè alla grande distribuzione o le tante iniziative spontaneamente nate di mutuo aiuto fra cittadini (il mio osservatorio è la pagina Facebook della Social street dei Residenti in Piazza Grandi e dintorni fondata nell’aprile del 2017).

La vera sfida sarà quella di battere la pandemia…ma per me, anche se in piccolo, anche quella di continuare a proseguire nel dare senso e valore ai momenti vissuti e alle capacità e alle competenze acquisite in queste settimane, a serbarle nei miei ricordi e a sforzarmi perché permangano nel mio bagaglio personale di uomo, di marito, di figlio….e naturalmente di padre.

Stefano

Ps. Poi se volete vedere come sono andate veramente le cose in casa a noi padri, allora guardate qui il video di Giovanni Scifoni “Cosa succede ai padri in quarantena”…divertentissimo!

Una diversa forma di paternità. Riflessioni a partire da un’esperienza di affido

Luglio 2018

Nella primavera del 2016 io e mia moglie Patrizia abbiamo sentito il desiderio di sperimentare una nuova e diversa esperienza di genitorialità – quella dell’affido – e, per questo, abbiamo contattato il servizio Affidi del Comune di Milano per verificarne la fattibilità, le modalità, le regole ecc. Dopo aver frequentato un breve percorso di formazione previsto dal progetto di affido e qualche mese di attesa (necessario perché si creasse la combinazione fra la disponibilità da noi offerta di un affido cosiddetto “part time” – nei fine settimana e nei periodi di vacanza – ed un caso che fosse compatibile), da ottobre 2017 è entrata nelle nostre vite e a pieno titolo nella nostra famiglia la piccola Sofia di 8 anni. Sofia vive con la mamma mentre non ha più, da qualche anno, rapporti stabili con il papà ed il nostro progetto di affido durerà per ora fino al prossimo mese di ottobre. Da un po’ di tempo sentivo il desiderio – forte anche dell’esperienza di consapevolezza maturata in questi anni sui temi della paternità attiva e responsabile curando dal 2010 il progetto Papà Al Centro con l’amico-socio Massimo Zerbeloni – di “fermare su carta” i tanti momenti, le molte riflessioni, le diverse emozioni e sensazioni che da allora sto vivendo. L’occasione per farlo me l’ha offerta la visione della seconda puntata del ciclo “Lessico familiare”, andata in onda lunedì 14 maggio su Rai Tre (si può rivedere qui), condotto dal prof. Massimo Recalcati e dedicata appunto alla figura del padre (ed in parte anche quella andata in onda il lunedì successivo dedicata invece a quella del figlio).

Dell’interessante quanto articolata riflessione del prof., tre sono stati gli snodi da lui affrontati e che più da vicino stanno interrogando/“stressando” il mio essere papà dall’arrivo con noi di Sofia e che qui proverò ad illustrare riprendendone letteralmente alcuni passaggi.

Innanzitutto quando il prof. afferma “….il padre non è lo spermatozoo, non è il genitore biologico dei suoi figli…”, nei fatti questa sua affermazione si sta rivelando molto vera per me/noi. Quando Sofia è con noi, per me e Patrizia, è a tutti gli effetti nostra figlia e la modalità (secondo alcuni un po’ vessatoria, a dire il vero……) con cui ci rapportiamo a lei è identica a quella con cui ci rapportiamo a nostro figlio Edoardo, a prescindere dal fatto che il secondo sia nostro figlio naturale. Ed agiamo così indipendentemente dal suggerimento datoci dal servizio Affidi del Comune di assumere proprio questo atteggiamento perché giudicato il migliore in simili situazioni; lo facciamo molto più semplicemente perché spinti dal nostro quotidiano agire facendoci guidare da ciò che chiamerei “responsabilità genitoriale”. Quando sono insieme a Sofia, mi considero e mi sento, anche se per poche ore, a tutti gli effetti suo papà e cerco di esercitare al meglio (o per lo meno secondo gli stessi criteri che adotto quando mi rapporto con Edoardo) ciò che più sopra ho definito responsabilità genitoriale che è uno degli elementi che concorre a strutturare quella che il prof. Recalcati definisce la “funzione paterna”, concetto diverso e non necessariamente coincidente con la figura del papà. Funzione paterna che oggi non trova più la sua rappresentazione nell’autorevolezza della voce e dello sguardo del padre che spiega al figlio il valore e il senso della vita, la differenza tra il bene e il male, il giusto e l’ingiusto ecc., ma nell’autorevolezza dei suoi gesti, nella testimonianza che riprendendo qui il prof. “…….egli dà con la sua vita che la vita può avere un senso sostenendo e supportando il figlio nella realizzazione dei suoi desideri all’interno però di un contesto ben preciso di regole”. Mi sforzo con il mio agire di fornirle, analogamente a quanto faccio con Edoardo, elementi/indicazioni/regole che le possano essere di aiuto per crescere serenamente capendo il senso del limite ed apprendendo quelle regole elementari per rapportarsi agli altri in maniera positiva. La differente modalità di trasmissione della cd. “funzione paterna” rimarcata dal prof. è una delle dimensioni di quella evoluzione, in corso da qualche decennio, della figura paterna che si sta trasformando da “padre-padrone” (la figura tradizionale e da cui proveniamo caratterizzata dall’essere severa, assente, lontana) a “padre-testimone/esemplare” che si caratterizza invece per essere meno severa, più presente, più prossima.

Il concetto di testimonianza sopra citato viene ripreso anche nel secondo snodo concettuale affrontato dal prof. e che mi tocca da vicino da quando mi relaziono con Sofia allorquando afferma “…..Oggi quindi il padre è testimone e la sua testimonianza viene data attraverso la sua vita: il padre non deve spiegare il senso della vita, ma deve mostrare attraverso la sua che la vita, con i dovuti limiti, può avere un senso, animando così la vita del figlio con la speranza….”. Nel mio caso però non posso non tenere conto che Sofia un papà ce l’ha, con lui ha trascorso i primi anni di vita e ne continua ancora ad avere. Talvolta quindi in questi mesi mi è capitato, non conoscendo suo padre e sapendo poco o nulla del suo passato con lei e del suo presente con e/o senza di lei (e quindi su cosa pensi, che esperienze abbia vissuto o stia vivendo con la figlia, se e cosa le abbia trasferito ecc..), di interrogarmi sulla testimonianza di vita che le sto offrendo; ad es. mi chiedo se il mio agire sia simile o diverso da quanto lei ha appreso/sta apprendendo dal suo papà naturale. E poi ancora mi domando: “La mia testimonianza sarà efficace?”, “Quanto di essa si contrappone a quella di suo papà?”, “Vanno in senso opposto oppure si sostengono a vicenda?”ecc. ecc. Domande per me nuove prima del suo arrivo nella mia e nostra vita.

Infine un terzo snodo affrontato dal prof che il rapporto con Sofia sollecita del mio ruolo paterno tocca da vicino un paio di questioni: da una parte quella dei valori che si trasmettono e del connesso concetto espresso dal prof. di eredità – quindi di quel qualcosa che il genitore tramanda ed affida alle nuove generazioni – e dall’altra quella del tempo che si ha disposizione nella costruzione del rapporto con i propri figli e quindi della trasmissione di quei valori.

Questi i due passaggi del prof. ripresi dalle due puntate: “….Qual è quindi l’eredità del padre? L’eredità paterna è costituita dai valori che è riuscito a tramandare. La testimonianza deve accadere nel silenzio e non genera degli effetti immediati, come una semina che richiede tempo per generare i frutti…..” ed ancora “l’espressione che meglio rappresenta l’età adolescenziale dei figli è vai….” (contrapposta a quella dei primi anni di vita che è “eccomi”).

Sofia ha, seppur ancora piccola, in parte già acquisito un piccolo bagaglio valoriale che quando è entrata a far parte delle nostre vite non conoscevamo e sto replicando con lei il “modus operandi” seguito con Edoardo anche nella trasmissione di idee e valori fondanti il mio essere padre. Ma se con Edoardo agivo su una tabula rasa, con Sofia così non è – cosa che fra l’altro è assai stimolante – e quindi mi fermo talvolta a riflettere se non le stia esercitando un po’ di “violenza” o comunque trasferendo valori in contrasto con quelli di cui lei è già in parte portatrice. Su questo gioca a mio e nostro favore l’ottimo rapporto con la mamma di Sofia che si è sempre dimostrata aperta e disponibile ad un nostro agire che ci consentisse di contaminarci con lei. E’ per me motivo di gioia averle potuto in questi mesi ad es. trasferire l’amore per Milano e la “milanesità”, cioè quella tensione a voler vivere intensamente alcuni di quegli elementi popolari (un panzerotto da Luini, una passeggiata fra le bancarelle della Fiera degli O’ bej O bej ecc.) che concorrono ad identificarci con la nostra città e che devo ad uno dei tanti “milanesi di importazione” (il mio babbo trasferitosi qui da Napoli nel 1968) che fin da piccolo me l’ha trasferita, fatta coltivare e crescere nel corso degli anni….anche in questo si vede in fondo in maniera sostanziale e concreta il concetto della trasmissione dei valori da padre a figlio.

Certamente e in parte purtroppo il tempo per farlo è però contingentato perché l’affido è per sua natura un’esperienza a tempo: cioè quando inizia si sa già che avrà un termine ed anzi talvolta capita che si interrompa anche prima di quando previsto all’inizio del percorso; di conseguenza ed inevitabilmente il rapporto che si instaura fra la famiglia affidataria e la persona che viene accolta è quindi di breve periodo, molto incentrato sul qui e ora e poco proiettato ad una progettualità di lungo periodo. Quindi ci si dona, si potrebbe dire, senza sapere né se né quando si vedranno mai i frutti del proprio lavoro di semina proprio perché il raccolto potrebbe avvenire quando quel rapporto si sarà interrotto. Ciò nonostante l’esperienza educativa con Sofia si sta rivelando molto arricchente, sebbene talvolta prevalgano in me/noi anche considerazioni del tipo “chissà cosa rimarrà a Sofia di quanto le stiamo insegnando” ecc. ecc. e che inevitabilmente rimandano a quella condizione di esperienza a termine. Già ora penso a quando il rapporto con lei si interromperà, alle emozioni che vivremo e mi domando se e in che modo quel rapporto continuerà – se continuerà – nel tempo…….

Infine sempre il prof. nell’illustrare il passaggio dei figli dall’infanzia all’adolescenza individua le due espressioni verbali che meglio rappresentano per noi genitori questi momenti: si passa infatti dall’ “eccomi” – dietro a cui soggiace il concetto di esserci in maniera totalizzante tipica dei primi anni di vita dei figli – a quella del “vai” che invece riflette il momento nel quale da una parte non si è più bambini e si è spinti quindi a voler scoprire il mondo e, dall’altra, noi genitori dobbiamo essere pronti a fare un passo indietro/di lato, passando da chiocce sempre presenti a guide che da lontano indirizzano il cammino dei figli. Anche in questo caso mi domando se mai potrò dire a Sofia “vai” e poter così vivere anche con lei quella fase di passaggio verso l’età adulta così carica di fatiche, tensioni, problemi ma che rappresenta comunque una tappa fondamentale nel percorso di vita di ogni figlio.

Tirando le somme, l’esperienza di affido di Sofia si sta rivelando uno dei progetti più arricchenti e soddisfacenti vissuti dalla nostra famiglia da tanti di punti di vista diversi perché ci sta consentendo di rimetterci in gioco e in discussione come genitori, di rivedere i nostri metodi ed approcci educativi, di rivivere alcuni momenti già vissuti con Edoardo ma con una maggiore consapevolezza ecc. ecc.

Le emozioni vissute e le riflessioni fatte in questi mesi mi spingono da un lato a suggerire, a chi se la sente, di provare a sperimentare questa esperienza perché fortemente trasformativa del proprio essere. Dall’altro rinforzano in me un’opinione maturata fin dall’arrivo di Edoardo: ciò che conta davvero per noi genitori – in particolare per noi padri – è quello di lasciarci influenzare e guidare nel nostro agire quotidiano (fatto spesso di fatiche, sofferenze, rinunce e senza libretti di istruzioni) sempre e comunque soprattutto dall’incredibile forza che ci danno i nostri figli (anche quando non sono naturalmente nostri come nel caso di Sofia) perché consentono di metterci/rimetterci quotidianamente in gioco e di andare, mano nella mano, alla scoperta di cosa voglia dire “sentirsi” (più che essere) veramente papà.

Stefano

Il nostro progetto di affido

Febbraio 2020

Nella primavera del 2016 io e mia moglie Patrizia abbiamo sentito il desiderio di sperimentare una nuova e diversa esperienza di genitorialità – quella dell’affido – e, per questo, abbiamo contattato il servizio Affidi del Comune di Milano per verificarne la fattibilità, le modalità, le regole ecc. Per questo abbiamo frequentato un percorso di formazione (3 incontri) durante i quali abbiamo avuto modo, da un lato, di acquisire le informazioni principali su quali tipi di progetti di affido il Comune “mettesse a disposizione” e, dall’altro, di ascoltare esperienze di famiglie già affidatarie a cui è poi seguita una visita del personale del Servizio Affidi a casa nostra nella quale hanno voluto soprattutto parlare con nostro figlio Edoardo di 12 anni su cosa ne pensasse di questa idea di papà e mamma. Abbiamo passato l’esame!

Dopo qualche mese di attesa (necessario perché si creasse la combinazione fra la disponibilità da noi offerta di un affido cosiddetto “part time” – nei fine settimana e nei periodi di vacanza – ed un caso che fosse compatibile), da ottobre 2017 è entrata nelle nostre vite e a pieno titolo nella nostra famiglia la piccola Sofia che al momento del suo arrivo aveva 8 anni. Sofia vive con la mamma mentre non ha più, da qualche anno, rapporti stabili con il papà ed il nostro progetto di affido – di durata annuale – è già arrivato al terzo rinnovo.

Gli obiettivi del nostro progetto di affido – definiti dal Servizio Affidi in accordo con la psicologa che seguiva Sofia in ragione dei primi suoi faticosi anni di vita – erano sostanzialmente due:

  1. Fornire alla mamma di Sofia una famiglia di appoggio che potesse ospitarla nei momenti in cui la scuola è chiusa per evitare che – dal momento che la mamma è turnista e lavora quindi anche nei fine settimana – la bambina continuasse a venire ospitata/”parcheggiata” da amiche della mamma non potendo lei contare su altri appoggi (ad es. familiari)
  2. Fornire a Sofia una figura paterna più stabile rispetto a quella del suo papà naturale

Dal punto di vista organizzativo, incrociando le altrui esigenze, vado a prendere io Sofia a casa il venerdì pomeriggio uscendo dal lavoro ed insieme andiamo a casa nostra mentre la domenica pomeriggio il più delle volte l’accompagniamo noi là dove lavora la sua mamma al termine del suo turno di lavoro.

Ricordiamo ancora come fosse ieri la prima volta che abbiamo conosciuto Sofia: era un mercoledì pomeriggio (questo perché, durante un primo incontro avuto con la sua mamma, si era deciso con il personale del Servizio Affidi e l’allora assistente sociale che seguiva Sofia di fare in modo che il primo incontro fosse infrasettimanale e nella forma della merenda). Che emozione quando sono entrate a casa nostra Sofia e la sua mamma e che buffo quando si sono conosciuti Sofia e nostro figlio. Inutile dire che quasi subito sono andati nella cameretta di nostro figlio e si sono messi a giocare. Dopo un’oretta li vediamo tornare e Sofia fa alla sua mamma: “Quand’è che vengo la prossima volta?”….dopo un momento di iniziale imbarazzo ed aver chiesto un parere nei giorni a seguire al Servizio Affidi (in realtà infatti l’avvio sarebbe dovuto essere più graduale e diluito nel tempo….), Sofia è tornata da noi già il venerdì successivo, con nostra grande sorpresa ma anche piacere ovviamente.

Nel corso di quel primo fine settimana che coincideva fra l’altro con il mio compleanno, abbiamo avuto da subito già primo piccolo dubbio su come fosse meglio agire e che nasceva dal fatto che avevamo programmato di festeggiarlo a casa di nostri amici e dei loro figli: “Meglio stare in casa da soli o lasciare le cose come stanno e portare Sofia da subito con noi?”, questo il dilemma. Anche in questo – come in tutti i successivi momenti che abbiamo finora vissuto insieme – è stata lei a rispondere al nostro quesito semplicemente facendo ciò che sentiva di voler fare: cioè stare a giocare con quelli che per lei erano perfetti estranei…..dopo pochi minuti già saltava insieme ai figli dei nostri amici sul loro adorato e delicato divano….ok rotto il giacchio abbiamo pensato!

Noi amiamo spesso dire che da quando Sofia è con noi, i più bravi non siamo stati né noi né la sua mamma ma nell’ordine:

– Lei e nostro figlio: lui l’ha accolta da subito come se fosse sua sorella condividendo con lei immediatamente i suoi spazi – dormono in due letti attigui ma se all’inizio Sofia voleva essere staccata, ora attacca il suo letto a quello di nostro figlio -, i suoi giochi – ad es nostro figlio gioca a calcio e lei è la sua prima tifosa (qui abbiamo avuto anche un pizzico di fortuna perché a lei piace giocare a calcio), ecc. ecc. Sofia si è dimostrata da subito una bambina con una capacità straordinaria di adattamento a qualsiasi circostanza, anche le più complesse all’inizio (forse per via anche del suo passato così faticoso che l’ha forgiata): dove la metti sa stare e si è subito relazionata con tutti (adulti e coetanei) senza manifestare mai problemi.

– I nostri familiari: nonostante alcune perplessità iniziali dei nostri genitori (soprattutto legati al fatto che temevano che nostro figlio ne avrebbe sofferto), Sofia è stata accolta in famiglia con gioia e amore divenendo la loro “quasi nipotina”; lei li chiama nonno Pippo, nonna Miranda, zia Viviana, zio Manu ecc. ecc.

– I nostri amici: anche loro l’hanno da subito considerata parte della nostra famiglia includendola in tutti i momenti che trascorriamo insieme, compresi periodi di vacanza durante i quali Sofia è – quasi sempre – venuta insieme a noi salvo rari casi in cui è rimasta con la mamma perché non era previsto lei lavorasse in quei giorni.

– Gli amici e le amiche di Edoardo: dopo i primi momenti in cui non capivano da dove fosse saltata fuori, lei è stata trattata come la quasi sorella di Edoardo ed è immersa completamente nella sua rete amicale.

L’avvio del nostro progetto è stato come detto molto positivo e questa è stata una condizione che ha facilitato poi un suo proseguo altrettanto ricco di momenti belli ed intensi ma, siccome talvolta sappiamo che in altri casi può non essere tutto “rose e fiori”, anche nella nostra esperienza con Sofia ci sono state situazioni non semplici. Ne cito solo due per ragioni di tempo che hanno riguardato me:

– Nei primi 3 mesi circa Sofia non mi chiamava ovviamente papà (non lo fa neppure ora….a seconda del momento sono papino, papà 2, paparino anche se il + delle volte semplicemente Ste) e fin qui ci stava pure. No, mi chiamava semplicemente e ininterrottamente BRUTTO. Vi posso assicurare che non era il massimo dell’allegria sentirselo ripetere in continuazione durante tutto un fine settimana e tante settimane di fila. Poi anche grazie ad un prezioso consiglio ricevuto da un amico, ha per fortuna smesso di farlo e ora ci scherziamo su!

– Dopo circa un anno dall’avvio del progetto, nel mentre un venerdì stavamo per partire a piedi da casa sua per avviarci a casa nostra, fuori dal portone del suo palazzo è apparso suo papà che fino a quel momento non avevo nè avevamo mai incontrato. E’ stato un momento di grande imbarazzo ed emotivamente molto complesso che però alla fine si è chiuso nel migliore dei modi. E’ stata anche quella una tappa di un percorso che andava fatta….devo dire che per fortuna è capitato all’improvviso ed in maniera inaspettata per tutti, mamma e figlia comprese.

Anche per mia moglie l’inizio del rapporto con Sofia ha presentato dei momenti di complessità, non fosse altro perché cmq lei una mamma ce l’ha. Abbiamo fin da subito infatti compreso come fosse necessario per noi tenere comunque e naturalmente conto del ruolo e dell’influenza che il papà e la mamma di Sofia hanno su di lei come giusto sia. Non è stato come detto semplice per mia moglie – che rispetto a me ha un profilo più normativo e severo – relazionarsi da subito con lei soprattutto rispetto a situazioni più femminili ed intime come la cura del proprio corpo e del proprio aspetto, dell’igiene personale ecc. ecc. Ma anche su questo sono scattate progressivamente dinamiche positive ed arricchenti sia per mia moglie che per Sofia anche perché quest’ultima ha immediatamente percepito la spontaneità e la naturalezza con cui alcuni precetti le venivano da lei imposti, oltre che nel vedere che in fondo sono gli stessi che lei più di me impone a nostro figlio.

Quando Sofia è con noi, per me e mia moglie, è a tutti gli effetti nostra figlia e la modalità con cui ci rapportiamo a lei è identica a quella con cui ci rapportiamo a nostro figlio. Ed agiamo così indipendentemente dal suggerimento datoci dal servizio Affidi di assumere proprio questo atteggiamento perché giudicato il migliore in simili situazioni; lo facciamo molto più semplicemente perché spinti dal nostro quotidiano agire facendoci guidare da ciò che chiamiamo “responsabilità genitoriale”. Quando siamo insieme a Sofia, ci consideriamo e sentiamo, anche se per poche ore, a tutti gli effetti suo papà e sua mamma (così come siamo convinti che per nostro figlio lei sia di fatto sua sorella e viceversa) e cerchiamo di esercitare al meglio (o per lo meno secondo gli stessi criteri che adottiamo quando ci rapportiamo con nostro figlio) ciò che più sopra abbiamo definito responsabilità genitoriale. Quando è con noi replichiamo semplicemente quello che facciamo nei confronti di nostro figlio, cioè ci sforziamo con il nostro agire di fornirle, elementi/indicazioni/regole che le possano essere di aiuto per crescere serenamente capendo il senso del limite ed apprendendo quelle regole elementari per rapportarsi agli altri in maniera positiva.

Come avete capito abbiamo vissuto con lei tantissimi momenti, soli o con amici, facendola immergere nella nostra quotidianità così come la sua mamma ci ha messo nelle migliori condizioni per vivere con intensità questa esperienza; tanti i momenti forti trascorsi insieme, fra cui:

– Il compleanno di Sofia a gennaio 2018: la mamma ci ha invitato alla festa di compleanno che ha organizzato per lei e a noi ha fatto piacere andarci e conoscere così alcuni suoi parenti che ci hanno accolto con grande affetto.

– La vacanza estiva del 2008: la mamma va in vacanza a luglio mentre noi ad agosto e quindi ci è venuto naturale portarla al mare con noi e i nostri amici Alessandra e Michele e l’amico di nostro figlio Jacopo dopo averlo ovviamente chiesto alla mamma. Così è stato e ancora una volta Sofia ha disatteso alcune nostre preoccupazioni come ad es. il lungo periodo di distacco con la mamma, l’impatto delle telefonate fra lei e il suo papà ecc.

– L’invito a cena a casa loro: la scorsa primavera, durante un week-end in cui la sua mamma non lavorava, ci ha invitato a cena. Per Sofia è stata una grande gioia poterci ospitare a casa e mostrarci ad es. con più calma i suoi giochi e per noi un’ulteriore occasione per entrare in relazione con lei e il suo ambiente di vita.

– La visita alla sua nonna sarda: questa estate – all’insaputa di Sofia – essendo noi in Sardegna e sapendo che lì abita la sua nonna abbiamo deciso di farle una sorpresa condividendo prima la cosa con la sua mamma. Ad un certo punto mentre eravamo in viaggio verso Cagliari – dove avevamo preso in affitto un appartamento con amici, – abbiamo deviato verso la località dove abita appunto la sua nonna di 90 anni. Potete immaginare la sua felicità nel vedere la nipotina che abita a Milano così come quella di Sofia di vedere lei e i suoi cugini.

– Siamo stati invitati al saggio di fine anno del corso di ginnastica artistica che frequentava durante il primo anno che è stata con noi così come sabato prossimo lei e la mamma ci hanno invitato ad una lezione di pallavolo aperta anche a genitori, parenti e….genitori affidatari……

L’esperienza educativa con Sofia si sta rivelando molto arricchente (diciamo spesso che stiamo ricevendo molto di più di quanto stiamo dando), sebbene ovviamente talvolta prevalgano in me/noi considerazioni del tipo “chissà cosa rimarrà a Sofia di quanto le stiamo insegnando” ecc. ecc. e che inevitabilmente rimandano a quella condizione di esperienza a termine che caratterizza l’affido…si sa quando inizia ma non quando finisce (anzi talvolta termina prima di quando sia previsto).

Questa esperienza da quel che abbiamo cercato di raccontare in questi pochi minuti ha portato a tanti risultati che dalla nostra prospettiva sono tutti di segno positivo; innanzitutto per i due ragazzi e sotto tanti punti di vista; ne citiamo solo:

– tre per Sofia che sono l’andamento scolastico, una maggiore attenzione alla cura di sé (cosa particolarmente importante soprattutto ora che sta entrando nella preadolescenza) e avere l’opportunità di relazionarsi con una figura maschile più stabile.

– una per nostro figlio che è banalmente quella di potersi e doversi relazionare in casa e fuori con qualcun altro di poco più piccola di lui, cosa che ai figli unici non è dato sperimentare e che, secondo noi invece, è una grande ricchezza.

Poi per la mamma di Sofia perché ha guadagnato dei momenti in cui si può ritagliare del tempo per sé stessa dopo anni di fatiche, può più serenamente andare a lavorare sapendo Sofia con noi e, ma questo è più un nostro pensiero, immaginiamo possa essere contenta nel sapere che stando con noi la figlia può vivere esperienze che forse lei non potrebbe offrirle.

Ed infine per noi perché il suo arrivo ci sta offrendo l’occasione di sperimentarci in una forma diversa di genitorialità, di rivivere alcune situazioni già vissute ma da una prospettiva e con una consapevolezza in parte diverse ed infine, anche grazie alla sua presenza, di godere di una grande serenità e gioia in casa (che cmq non è che manchino quando lei non è con noi).

Le emozioni vissute e le riflessioni fatte in questi mesi ci spingono da un lato a suggerire, a chi se la sente, di provare a sperimentare questa esperienza perché fortemente trasformativa del proprio essere. Dall’altro rinforzano in noi un’opinione maturata fin dall’arrivo prima di nostro figlio e poi di Sofia: ciò che conta davvero per noi genitori è quello di lasciarci influenzare e guidare nel nostro agire quotidiano (fatto spesso di fatiche, sofferenze, rinunce e senza libretti di istruzioni) sempre e comunque soprattutto dall’incredibile forza che ci danno i nostri figli (anche quando non sono naturalmente nostri come nel caso di Sofia) perché consentono di metterci/rimetterci quotidianamente in gioco e di andare, mano nella mano, alla scoperta di cosa voglia dire “sentirsi” (più che essere) veramente genitori.

Grazie

Stefano & Patrizia (intervento tenuto il 1° febbraio 2020 al convegno annuale di Anania dal titolo Dal buon vicinato all’accoglienza: per una quotidianità condivisa); l’audio è ascoltabile qui

“In estate la paternità non va in vacanza, anzi…riflessioni semi serie sui padri in vacanza”

Pubblichiamo un pensiero risalente all’Agosto del 2014, di rientro dalle vacanze estive di quell’anno, durante il quale ho riflettuto a voce alta sul rapporto fra il periodo legato alle vacanze e il mio essere padre e quindi genitore.

Olbia-Livorno, 25-26 Agosto 2014 (e giorni seguenti)

Mentre mi trovo in attesa di un traghetto che mi riporterà “in continente” – come amano dire i Sardi – dopo 2 settimane di vacanze appunto in terra sarda, ripenso e rifletto – come sempre mi capita in queste circostanze – sulle vacanze di fatto ormai conclusesi. E, se mi focalizzo su quanto vissuto adottando una “prospettiva/angolatura paterna” – per ciò che qui più conta – mi rendo conto che da quando è arrivato Edoardo ormai quasi 7 anni fa, anche la modalità con cui mi approccio e poi vivo il periodo delle vacanze estive è cambiata sotto molti aspetti.

E che inoltre molte sono anche le differenze rispetto ai modelli educativi applicati dai nostri genitori quando eravamo piccoli allorquando occorreva progettare e poi vivere le vacanze. Provo a rifletterci su a voce alta partendo da personali esempi e da ciò che ho osservato ed osservo tra altre coppie di bimbi e papà.

Innanzitutto una prima differenza è nella fase, diciamo, della “progettazione della vacanza”: a me pare che l’enfasi sia naturalmente, ma forse anche eccessivamente, tutta e sempre più indirizzata su Edoardo. Credo accada per quella strana sindrome per cui ci si sente quasi in dovere di dedicare ai propri figli in vacanza quel tempo tante volte sottratto durante i mesi lavorativi; percezione questa che non solo spesso non corrisponde al vero ma che rappresenta una delle – tante – differenze rispetto ai modelli educativo-relazionali di un tempo. Non credo infatti che mio padre e mia madre si facessero quelle domande che invece noi “genitori moderni” spesso – anche se non sempre e non tutti ovviamente – ci poniamo: “nostro figlio si divertirà anche se andiamo in vacanza senza amichetti e/o in un luogo dove non c’è nulla per loro (es. un servizio di animazione)?”, “Non si stancherà troppo a seguirci nei nostri itinerari di viaggio?” ecc. Non finiamo per eccedere nel coinvolgimento dei bambini? Un tempo forse decidevano i genitori e stop mentre oggi si tende ad una forma di “co – progettazione” non so fino a che punto sensata e funzionale ad una loro crescita serena ed equilibrata. Chiedere loro una preferenza fra diverse attività da fare o luoghi da visitare può essere un quesito al quale non possono rispondere e per il quale ogni eventuale risposta è di per sé viziata dalla loro età che non consente di avere quegli elementi informativi e livello di maturità necessari per decidere.

Insomma la sensazione che provo è che quasi tutto ruoti o debba ruotare sempre intorno alle esigenze dei figli e non di quelle di noi genitori e che le nostre di esigenze per forza siano spesso un’alternativa alle loro…ma perché mai?

E’ anche vero che queste dinamiche sono frutto del cambiamento sociale e culturale in corso e che ha comportato grandi differenze rispetto agli anni del boom economico, quelli che vedevano le vacanze dei nostri giovani genitori. Basti pensare che negli anni ’50 del secolo scorso le famiglie erano mediamente più numerose –  tre figli contro l’uno a testa di adesso – e i bambini non avevano problemi a trovare compagni di gioco perché appunto inseriti in contesti familiari più ampi. Oggi – anche per via di un aumentato benessere rispetto alle generazioni precedenti –  le vacanze dei bambini sono, rispetto a quelle di un tempo, super-impegnate, molto più frammentate e frenetiche, ricche ed articolate tra scuole estive, viaggi studio, corsi, programmi educativi ecc. quasi come se noi genitori volessimo evitare di dare loro tempi morti…ma perché mai? Da dove nasce questa paura che s’annoino? Perché non succeda, se non sono impegnati in nulla piuttosto gli lasciamo passare ore davanti ad un telefono cellulare o un tablet (sia in vacanza che durante l’anno). Non vorrei essere frainteso: nulla di male che i bambini familiarizzino presto con strumenti tecnologici, ma sarebbe preferibile ciò avvenisse se possibile seguendo come famiglia una qualche forma di progettualità in modo che sia davvero anche quella una attività ad alto valore aggiunto…quante volte ciò accada però realmente? Quante volte invece fa comodo a noi stessi parcheggiarli davanti ad un monitor in modo passivo?

Insomma, banalmente in vacanza abbiamo più tempo per stare coi bimbi, meno scuse per non metterci in gioco rispetto al nostro essere padri e riceviamo tante sollecitazioni (spesso suggerite anche dal ritrovarsi nei luoghi in cui s’andava in vacanza da bambini), a ragionare sui propri percorsi di vita come figli, rispetto al proprio modo di essere oggi genitori. E storia privata e cambiamenti sociali s’intrecciano: un tempo mediamente le vacanze duravano di più e meno donne lavoravano. Oggi quasi sempre a lavorare sono sia il papà che la mamma e le vacanze per entrambi sono più brevi e contingentate anche da esigenze lavorative spesso ineludibili.

Il piccolo Edoardo così trascorre con i nonni molto tempo, anche durante le vacanze estive e, come lui, credo accade anche a molti altri bambini lontani dai genitori che rimangono nelle città a lavorare…situazione questa che ha ovviamente i suoi aspetti sia positivi che negativi nelle dinamiche educative e relazionali. Per chi ha la fortuna di avere ancora i propri genitori/nonni, si pone ad esempio il problema della gestione oculata ed equilibrata del coinvolgimento di tutti rispetto ai compiti educativi e di cura estiva dei bambini, con inonni che desiderano spendersi di più ed altri di meno, fino a trovarsi in situazioni di conflitto con la propria moglie/compagna, i propri genitori e/o suoceri.

Sempre durante la vacanza poi mi capita di vivere episodi e momenti che confermano un pensiero che ho maturato da qualche tempo: cioè che, come amo dire spesso, i figli sono i migliori “datori di lavoro” del mondo; sono capaci infatti di valorizzare e premiare in maniera incredibilmente elevata quando ci si approccia con loro in termini positivi e ricchi di contenuto (cioè quando si fa bene il proprio lavoro per riprendere la metafora) così come altrettanto capaci di sanzionare chi con loro non si spende fino in fondo. Ma lo fanno in maniera molto più trasparente, quasi più oggettiva e sincera di qualsiasi datore di lavoro adulto. E siccome in vacanza si ha finalmente l’occasione di stare di più e più intensamente con i propri figli, questi sono naturalmente portati a chiedere molto, a reclamare cioè attenzioni, risorse ed energie. Può accadere talvolta però che queste richieste di attenzione, presenza, “messa in gioco e in discussione” rimangano insoddisfatte o semplicemente ingenerino nei genitori – in particolare nei papà – situazioni di ansia e/o tensioni. Chiarisco con un esempio personale: con Edoardo mi rendo conto di replicare alcuni “percorsi” che mio papà ha fatto con me e, siccome il “nonno Pippo” (cioè mio padre) non aveva ad esempio, una spiccata inclinazione all’attività ludico-sportive ( comunque compensate da altre sue inclinazioni e passioni trasferitemi), io non ho vissuto da ragazzetto alcune esperienze vacanziere “tipiche” dell’ estate come pescare , fare immersioni, andare in barca oppure in inverno andare a sciare. Ed ovviamente ora Edoardo, quasi fosse un cane da tartufi, fiuta le mie debolezze e mi sollecita proprio a fare proprio ciò che non è nelle mie corde.

Ovviamente nulla e nessuno mi impedisce ora di imparare a farle magari con lui…ciò che noto è che non mi viene naturale e spontaneo proporre a o fare con lui ciò che appunto non appartiene ai miei vissuti. Per carità faccio e gli propongo altre attività – alcune anche sportive – che sono più vicine a mie inclinazioni o interessi…talvolta con buoni risultati, talvolta di meno. Ma resta il fatto che pare proprio voglia “mettermi alla prova” su dimensioni a me ostiche e, talvolta, questa mia “inadeguatezza” mi fa non solo riflettere ma soprattutto soffrire. Tipico, per chiudere l’esempio personale, è il commento che Edoardo spesso fa – non ultimo questa estate mentre eravamo in un parco avventura – quando facciamo insieme qualcosa di, diciamo, “sportivo”: “Papà sei proprio un imbranato!”.

Ecco una prova documentale del fatto che comunque mio papà con me in vacanza al mare giocava eccome

Infine nelle settimane estive anche il rapporto con la propria moglie e compagna di genitorialità non è detto che sia all’insegna del relax vacanziero proprio rispetto alla relazione con il proprio figlio. Non fosse altro e ancora perché si trascorre tutti insieme molte più ore di quanto accada durante l’anno e quindi per forza si modifica, per un breve lasso di tempo, l’assetto usuale nei rapporti interpersonali e nel carico/distribuzione dei compiti di cura dei figli. Sul modus con cui si modifica questo rapporto gioca molto, a parer mio, soprattutto una variabile e cioè se la mamma è a casa o lavora (e quanto) durante il resto dell’anno. Probabilmente la mamma super impegnata nel lavoro tenderà anche lei a “sfruttare” la vacanza per dedicare + tempo al proprio figlio, mentre la mamma “casalinga” aspetta le ferie familiari anche per prendersi un po’ di vacanza dal proprio figlio e recuperare del tempo per sé. Situazione che può talvolta stressare il rapporto con il proprio marito/compagno semplicemente perché esigenze ugualmente importanti (e che soggettivamente lo sono ancor di più) possono banalmente confliggere e spesso proprio in vacanza eventuali tensioni/incomprensioni, rimaste per mesi sotto traccia, tendono ad esplodere anziché stemperarsi. Classica, ad esempio la seguente frase rivolta da una mamma in vacanza al proprio marito/compagno: “Me ne sono occupata io tutto l’anno, ora tocca a te!”. A quanti è capitato infatti di sentirsela rivolgere?

Mi fermo qui……considerazioni banali? Forse…però nello spirito di “Papà al Centro”, siamo convinti che riflettere (anche senza grandi risultati e…sul traghetto!) intorno alla paternità, raccontare (anche senza effetti speciali) la propria esperienza personale, confrontarsi (senza paura) con quella altrui siano presupposti per provare ad essere e a comportarsi nel limite del possibile e delle proprie forze da “bravi” papà.

Stefano

“Da padre a figlio e da figlio a padre”

Pubblico qui un pensiero che risale alla primavera del 2014 durante un viaggio in treno con a tema il rapporto padre e figlio dalla prospettiva di un figlio che vede il proprio padre invecchiare.

Treno Bologna-Milano 10 aprile 2014

Negli ultimi mesi la vita mi sta ponendo davanti al processo di invecchiamento di mio papà che, purtroppo per lui e di conseguenza anche per noi, sta avvenendo in modo molto rapido e un po’ problematico per ragioni di salute. Lo stimolo a rifletterci su mi è nato non appena salito su un treno che da Bologna mi ha riportato a Milano e da un signore anziano seduto accanto a me che, fisicamente molto diverso da mio papà, esattamente come lui però è stato attaccato al telefono cellulare durante quasi tutto il breve tragitto.

Vedere invecchiare – e magari non bene – il proprio padre è una fase della vita che capita a tutti i figli di vivere (o meglio a coloro che hanno la fortuna comunque di viverla) e che si affronta senza poter avere a disposizione né un manuale di istruzioni né corsi di formazione ad hoc……un po’ in fondo come quando si diventa padri. E infatti ansie, preoccupazioni, inquietudini, fatiche che da figli si vivono spesso relazionandosi ai propri genitori che invecchiano sono in fondo simili nella forma (anche se forse diverse nei contenuti) a quelle provate quando si diventa padri e quando ci si approccia ai propri figli che crescono. Come con i genitori anziani infatti, anche con i propri figli ci si pongono domande quali: “Perché non mi danno retta?”, “In cosa sbaglio con loro?”, “Cosa potrei fare di più e meglio per loro?” ecc. Questo in fondo anche perché si dice spesso che le persone, quando diventano anziane, per atteggiamenti e comportamenti assomiglino molto a dei bambini piccoli. Questa fase della mia vita sta capitando nel mentre come socio di PeACe ma soprattutto come padre sto ragionando, riflettendo e dibattendo in modo attivo dal 2010 sul tema della paternità responsabile e consapevole oltre che attiva.

E dunque in questa “cornice di senso” mi sto interrogando da qualche mese intorno a quesiti quali “come figlio che responsabilità ho verso un padre che sta invecchiando?”, “cosa si aspetta lui padre che io come figlio faccia o non faccia per lui oppure pensi che sia giusto io faccia per lui?”, “come padre il suo invecchiamento che impatto è giusto abbia su mio figlio?”, “e mio figlio come si comporterà quando sarà il mio di turno? “ ecc.

Il rapporto padre e figlio è talmente ricco di elementi unici e irripetibili che qui è impossibile affrontarli tutti; ci sono però molte analogie che accomunano le due situazioni, cioè quando ci si approccia da padri verso i propri figli e quella in cui da figli ci si relaziona verso il proprio padre che sta invecchiando. C’è sicuramente una dimensione ciclica che accomuna le due condizioni….a questo proposito mi viene in mente la fortunata fiction Rai “Un medico in famiglia “ nella quale Lino Banfi – alias Nonno Libero – fra le massime che dispensa ne dice spesso una rivolgendosi al figlio Lele (Giulio Scarpati): “Ricordati sempre che quello che tu sei io ero e quello che io sono tu sarai” e questa frase credo fotografi bene questa cosa.

Quali dunque le analogie fra le 2 fasi della vita? Cioè fra l’arrivo per un uomo di un figlio e la costruzione del rapporto con lui e il momento a partire dal quale un figlio, diventato padre, ad un certo punto si trova – a volte costretto – ad occuparsi (o talvolta pre-occuparsi) dei propri genitori che invecchiano? Alcune, vediamole.

Innanzitutto in entrambi i frangenti ci si domanda se si è capaci davvero di parlare con loro, di capirli e di farsi capire da loro; quante volte capita che, presi dalla fretta e dalle tensioni quotidiane, si ha l’impressione che l’interlocutore (il proprio padre o il proprio figlio) abbia dei codici comunicativi diversi dai propri che derivano forse da una condizione di vita diversa perché scandita da ritmi più rilassanti e meno compressi e da qui la sensazione appunto “di parlare lingue diverse”. Apro qui un breve inciso un po’ fuori tema e che affronta un tema si direbbe “caldissimo”: perché i genitori fanno così fatica a capire che, anche grazie all’educazione ricevuta, siamo noi figli divenuti genitori che a nostra volta abbiamo ora responsabilità educative? Perché è così difficile concederci di poter anche sbagliare nell’educazione dei nostri figli come in fondo avranno fatto anche loro con noi?

Quindi in entrambi ad essere messo in tensione – e non sempre per carità negativamente – è l’equilibrio con la propria “compagna di vita”; ci si domanda spesso infatti se si è capaci di confrontarsi davvero e sempre nel merito dei problemi quotidiani che ci si trova ad affrontare o ancora se si è capaci di avere una linea comune di azione verso i propri figli e verso i propri genitori. Oppure ancora ci si domanda (e ci si confronta/scontra su) quale sia – ammesso che esista – il confine che è “giusto” tracciare fra le istanze e le richieste dei propri genitori (cioè di coloro che ti hanno generato e cresciuto) e quelle della propria compagna e dei propri figli con cui hai costruito la tua famiglia…..soprattutto se le istanze e le richieste sono confliggenti. Il classico esempio è l’immancabile invito al pranzo domenicale a casa dei propri suoceri (o genitori)……che fare rispetto ai propri (per carità) legittimi desideri di fare qualcos’altro? A prevalere cosa è giusto sia: l’affetto per i propri genitori o la voglia di dedicarsi alla propria famiglia non di origine?

Ed infine quante volte rispetto al proprio padre che sta invecchiando, ci si relaziona a lui spesso allo stesso modo di quando e come ci si relaziona al proprio figlio che sta crescendo nella misura in cui in entrambi i frangenti si vorrebbe vederli diversi da come sono, più sereni e/o felici di quanto ci appaiano proiettando così su di loro non solo i propri stati d’animo ma anche il patrimonio di ricordi, insegnamenti e vissuti che ciascuno si porta dentro. Su questo (come sui precedenti aspetti) vengono incontro gli strumenti e le modalità con cui come Associazione PeACe stiamo dal 2010 ragionando, giocando e riflettendo e che traggono linfa dalla pratica della cosiddetta “metodologia autobiografica” che, attraverso soprattutto la scrittura e le immagini, aiuta a vedere sotto una nuova luce la propria storia di figli e a riflettere sul modo con cui questa abbia influenzato e stia influenzando la propria avventura genitoriale.

In cuor mio penso e credo anche che ciò che mi stia regalando “mio padre da anziano” ora “serva/valga” come, e forse anche di più, di quanto mi abbia trasferito da “padre prima giovane e poi adulto” e che soprattutto questo patrimonio valoriale ed affettivo stia influenzando, in una chiave positiva perché comunque arricchente, il mio processo genitoriale verso mio figlio. Inutile dire però che questa riflessione da un lato sia più semplice pensarla o scriverla piuttosto che esternarla o condividerla con lui (cioè mio padre) e che, dall’altra, non sia la predominante fra quelle che animano da qualche tempo le mie giornate e le mie nottate…….

Mi è anche di poco conforto pensare che queste mie riflessioni siano forse le medesime di quelle che animano i pensieri di figli divenuti genitori miei coetanei. Mi piace però pensare che il solo fatto di “rifletterci ad alta voce” e condividerlo con altri – come nello stile delle attività sui padri e per i padri che stiamo realizzando – sia un modo efficace per poter lavorare su sé stessi e sul proprio “sentirsi padri attivi e responsabili oggi” sapendo che le risposte alle molte domande che ci si pone non le si posseggono e che quelle giuste di fatto nemmeno ci siano ma che esistano solo buone pratiche che si sperimentano, pian piano, cammin facendo passando anche attraverso errori, delusioni e amarezze.

Stefano

Ps. Nel frattempo una volta arrivato a Milano Rogoredo, dopo aver salutato il mio vicino di posto, sono sceso dal treno avviandomi ad incontrare l’amico nonché socio di PeACe Massimo; prima però mi sono voltato un attimo: ho visto il mio vicino di posto abbracciare calorosamente un giovane…..sarà stato suo figlio? E sarà stato con lui che avrà parlato al cellulare mentre era in treno?………………..

La paternità oggi

Pubblichiamo una riflessione della primavera 2014, a quattro anni circa dall’avvio del Progetto Papà al Centro, fatta insieme all’amico Massimo Zerbeloni sul tema della paternità ai giorni nostri.

Intorno al tema della famiglia e del valore che questa ha per la società dal 2010 l’Associazione “Periferie Al Centro” – da noi costituita nel marzo 2001 – ha attivato percorsi a sostegno della genitorialità, con specifica attenzione ai primi passi dei padri ed all’opportunità di momenti d’incontro e confronto loro dedicati. Il sostegno alla paternità è un bisogno emergente su cui è necessario promuovere nuove risposte. Molte mamme denunciano la fatiche di crescere da sole i figli, di avere a fianco uomini impreparati. Laddove però i padri assumono le proprie responsabilità, il benessere che ne deriva per i figli e per le mamme è considerevole. Le competenze paterne sono un plus irrinunciabile che è necessario promuovere e valorizzare per l’armonia delle famiglie e, noi riteniamo, delle comunità locali. Il nostro occuparci negli ultimi anni di bisogni emergenti in seno alle famiglie e nei quartieri della città con riferimento alla genitorialità e specificatamente alla più marginale figura del padre (rispetto al ruolo materno maggiormente riconosciuto, anche nelle vicende sempre più diffuse di separazioni e divorzi, piuttosto che -almeno in teoria – rispetto alle esigenze lavorative) è stato un passaggio “naturale”, anche perchè ha coinciso col diventare “grandi” e genitori dei soci. Noi consideriamo l’idea, che nasce anche dai nostri bisogni, di sostenere i papà e connetterli come pienamente integrata in una logica d’azione che vede il bene delle singole famiglie indissolubilmente legato al benessere del territorio in cui queste vivono e che possono contribuire a rendere più e meglio vivibile. Padri-risorsa positiva per sé, i loro bimbi e per la loro comunità. Per questo abbiamo avviato il Progetto “Papà al Centro” proprio sui temi della paternità attiva e responsabile ai giorni d’oggi e la sua evoluzione. La paternità è una “condizione umana” che – come per tutte le altre – riflette condizionamenti e influenze che concorrono a far sì che sia da ognuno vissuta e giocata “in dipendenza da/a seconda di” e quindi unica e irripetibile nelle sue manifestazioni. Condizionamenti e fattori che sono sia endogeni (cioè legati intrinsecamente a ciascuno) sia esogeni, cioè a dire esterni a noi e sui quali volente o nolente, talvolta poco si può fare per incidere e/o per fare in modo di poter contribuire a modificarli. E sono questi ultimi che poi, nel corso delle generazioni, creano modelli culturali, abitudini, dinamiche ecc. che incidono nei vissuti e nei comportamenti individuali. La paternità è certamente cambiata nel corso delle ultimi generazioni ed ha assunto delle caratteristiche e dei connotati sia positivi che negativi. Più che sugli effetti forse è più interessante riflettere sulla cause di questo processo evolutivo e quindi sui fattori esogeni che hanno potentemente favorito i cambiamenti che sono sotto gli occhi di tutti. Senza alcuna pretesa di esaustività, due sono i fattori che a parer mio hanno più incisivo: l’emancipazione femminile (soprattutto sotto l’aspetto lavorativo) e la precarizzazione del lavoro sia nei contenuti che nelle forme. Il combinato disposto di questi due fattori hanno generato poi una miriade di piccoli e grandi cambiamenti che hanno avuto forti impatti nei rapporti familiari, in quelli interpersonali, nei rapporti sociali ecc. ecc. E, per quanto qui ci interessa, nelle modalità con cui ogni uomo si gioca quotidianamente la partita della propria paternità. Entrambi i fattori stanno fortemente stressando l’immagine tradizionale di padre influenzandone (il più delle volte minandone) dalle fondamenta gli aspetti fondanti e – come in ogni momento di transizione – sono soprattutto le “novità negative” gli elementi che più colpiscono e preoccupano rispetto ai fattori invece che meglio permangono ai cambiamenti. A parer nostro si è metà del guado, cioè a dire che l’uomo/padre 3.0 non è certamente più per moltissimi aspetti simile ai propri nonni, sempre meno ai propri padri ed è in cerca di un nuovo “modello di riferimento”. Si è appunto lungo un continuum (dalla figura tradizionale – severa, assente, lontana – di padre vs. una nuova figura paterna – meno severa, più presente, più prossima) e probabilmente occorreranno ancora molti anni prima che la transizione possa dirsi conclusa. Per il momento forse l’unica riflessione che si può avanzare è che ognuno di noi padri badi poco a quanto su di sé si giudica e si discuta e si lasci invece influenzare e “guidare” nel proprio “modus operandi paterno” quotidiano (fatto spesso di fatiche, sofferenze, rinunce) sempre e comunque soprattutto dall’incredibile forza che danno i propri figli nel loro infinito amore mettendosi in gioco e facendosi portare per mano da loro alla scoperta di cosa voglia dire “sentirsi” (più che essere) papà oggi. Stefano Florio e Massimo Zerbeloni

La paternità in versione calcistica…e natalizia

Pubblichiamo un pensiero pre natalizio del dicembre 2014 sul rapporto fra la paternità e lo sport, in particolare il calcio, pensiero nato per via di una partita di calcio vissuta appunto in quel lontano dicembre del 2014.

Sabato, 20 dicembre 2014

Un nebbioso sabato pomeriggio di un mite dicembre la paternità mi ha messo in gioco per l’ennesima volta e questa volta su un piano squisitamente sportivo, calcistico per la precisione regalandomi momenti di grande emozione.

Antefatto: 2 giorni prima vengo a sapere da mia moglie che i giovani mister di calcio di mio figlio Edoardo hanno pensato di organizzare per festeggiare tutti insieme il Natale una partita di calcio padri-mister-bambini appunto per il successivo sabato pomeriggio.

Inutile dire che non metto piede su un campetto da calcio da più di 20 anni e che l’idea di essere costretto a farlo non mi entusiasmava neppure un po’ ma, come detto alla nostra amica Alessandra mamma di Jacopo amico-compagno di calcio di Edoardo: “Se tuo figlio ti dice che vorrebbe giocassi con lui, può un padre rifiutarsi?”.

A casa mentre in fretta e furia mi preparavo per andare al campetto, vedendo Edoardo di tutto punto vestito da piccolo calciatore mi sono tornate alla mente le immagini di me ragazzino che più o meno alla sua età andavo al campo del Bariviera Fadini a Milano con il mio amico d’infanzia Gabriele. Prima grande emozione della giornata.

Poi una volta arrivato al campo e compreso che la partita sarebbe stata solo fra i grandi (mister da un lato e papà dall’altro), Edoardo si è seduto per terra fuori dal rettangolo di gioco insieme ai suoi compagni e, prima di iniziare, guardandolo negli occhi ho avuto la sensazione mi volesse dire “Mi raccomando…non mi fa fare brutte figure” ma forse anche “Forza papà”. Seconda grande emozione: mai finora avevo fatto una partitella di calcio (fra l’altro l’ultima risale ad oltre 15 anni fa…) da papà!

Per tutta la partita (soprattutto nei momenti in cui, vista l’età, mi fermavo a rifiatare……) ho cercato il volto di Edoardo per capire se mi osservasse e ho cercato disperatamente, oltre a non farmi male ovviamente, di non deluderlo. Per fortuna “Santo Baggio” (inteso come l’ex calciatore Roberto e non il quartiere di Milano) dall’alto della sua infinita classe è secondo me intervenuto…sono perfino riuscito miracolosamente a segnare il primo goal della partita! Inutile dire che la prima cosa che ho fatto (dopo essermi accertato di non aver sognato) è stata quella di aver cercato con gli occhi il mio piccolo calciatore per vedere la sua reazione. Terza grande gioia della giornata: il primo goal della mia vita da “papà- calciatore”!

Per la cronaca la partita si è infine conclusa 3 a 3 e inaspettatamente la squadra dei papà (2 però giocano a calcetto una volta alla settimana) ha tenuto botta alla squadra di giovincelli che correvano come dei forsennati…forza dell’esperienza o loro pietà nei confronti di noi vecchietti? ….. Chissà.

La paternità mi ha quindi regalato in poche ore tante gioie e nuove emozioni…ma anche tante fatiche: dall’indomani l’acido lattico si è impossessato del mio corpo facendomi scoprire sue parti di cui perfino ignoravo l’esistenza……

Stefano

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